"Lascio il mondo ACLI in ottime mani"

Daniele Rocchetti conclude il mandato dopo 24 anni nell’Associazione, di cui otto come presidente.

«I cristiani non possono stare a metà strada fra giustizia e ingiustizia».

Il perché del successo di «Molte fedi»

 

da L'Eco di Bergamo | 26 settembre 2024

A cura di Franco Cattaneo

 

«Il coraggio della Pace» è il titolo scelto per il XXIX Congresso provinciale delle Acli bergamasche, che si terrà domani e sabato nell’auditorium del Liceo Mascheroni, a Bergamo. Un momento assembleare importante, che segna la conclusione del mandato del presidente Daniele Rocchetti e il rinnovo del consiglio provinciale. L’appuntamento è un’occasione significativa per fare sintesi dell’azione sociale di questi ultimi quattro anni e per confrontarsi sulle sfide future. Il via domani alle 18 con Nando Pagnoncelli («Le Acli, lievito della democrazia »). Seguirà la relazione di Rocchetti alla presenza del presidente nazionale Emiliano Manfredonia. Sabato dalle 9, dopo i saluti istituzionali, tra cui quello della sindaca Elena Carnevali, interverrà il vescovo Francesco Beschi. Seguirà il dibattito congressuale; dalle 14,30 l’assemblea dei presidenti di circolo, l’assemblea plenaria e la designazione dei nuovi membri del consiglio provinciale.


Lo aveva annunciato e il tempo sta per scadere: Daniele Rocchetti sabato lascia l’incarico di presidente delle Acli bergamasche. Un pezzo di vita individuale e collettiva: amici, idee, progetti, orgoglio. E chissà, lui sempre in movimento, cosa s’inventerà a 63 anni e a quattro dalla pensione.

 

A lei la parola «battaglia» non piace, ma se ne va dopo aver condotto la buona battaglia.

«Mettiamola pure così, nel senso che ho cercato di condurre una buona battaglia con la fortuna di avere sempre con me persone in gamba. Lascio il mio mondo e “Molte fedi sotto lo stesso cielo” in ottime mani. Le Acli hanno 80 anni e, anche in tempi liquidi, abbiamo nella nostra terra 41 Circoli, 10mila persone che quest’anno hanno sottoscritto la tessera, più di 500 volontari e servizi che funzionano. Siamo sui temi dell’economia, della politica, della pace e dell’inclusione. La nostra vocazione è stare in ascolto sulla soglia, fra i margini della comunità, custodi dell’umanità del Vangelo e con la capacità di coltivare l’indignazione, perché il cristiano non può stare a metà strada fra giustizia e ingiustizia. La democrazia o è sostanziale o non è democrazia: ricorderò anche questo nella mia relazione conclusiva». Scelta dolorosa, la sua? «Voluta e meditata dopo aver trascorso 24 anni nelle Acli, di cui otto come presidente e sempre con incarichi di responsabilità. Strada facendo, la mia decisione s’è rivelata più dolorosa del previsto, ma ora mi sono riappacificato, anche perché c’è una panchina molto lunga di giovani preparati ai quali consegnare le Acli. Il sociologo Mauro Magatti in un suo libro indica il “lasciare” come un elemento costitutivo della generatività. Lascio ogni incarico e impegno nelle Acli di Bergamo per generare, per dare vita. Del resto la sfida dell’associazionismo è quella di fare memoria per il futuro e non di essere un deposito di nostalgie».


Ci parli di «Molte fedi» nata sedici anni fa.

«Essendo un’iniziativa inedita, all’inizio ha incontrato una certa diffidenza in ambito politico e in parte del mondo ecclesiale. La comunità bergamasca stava cambiando radicalmente di segno, a velocità impressionante, stretta fra due estremi. Da un lato chi parlava di una devastazione culturale in atto, dall’altro chi pensava a mutamenti naturalmente gestibili, senza fare i conti con le conseguenze. Noi abbiamo offerto la comprensione delle grammatiche delle altre fedi. Non era sincretismo. Abbiamo detto che imparare a essere interreligiosi, cioè la dimensione costituiva del credente, comporta andare al cuore della propria esperienza spirituale in grado di costruire relazioni con tutti. L’identità, per noi, non è un monolite, qualcosa dato per sempre, ma è dialogica, fatta di contaminazioni e relazioni: un meticciato di civiltà, che però chiede di essere governato. Un compito della politica quello di creare le “terre di mezzo”».


Circa 500 mila presenze in totale hanno affollato i vostri incontri: la chiave del successo?

«Oltre ai numeri aggiungerei anche il regalo che il presidente Mattarella ci ha fatto con la sua presenza. Abbiamo fatto nostra l’intuizione del Cardinal Martini, quando diceva che la vera distinzione non è fra credenti e non, ma fra pensanti e non pensanti. Ci siamo fatti accompagnare da questa ambizione nel decifrare una realtà che sfuggiva alle nostre capacità di custodire l’umano».


Cultura e anche politica: siete stati criticati?

«Meno di quanto temessi. È chiaro che “Molte fedi” è stata una scelta di parte: non partitica, bensì schierata per una società bergamasca inclusiva, solidale, costruita sulle differenze. Da qui il profilo dei relatori di diversa estrazione come il Cardinal Ravasi, Cacciari, Prodi, Gentiloni, Sassoli, Walesa, Sepulveda, Yehoshua, Grossman, Pamuk. Semmai abbiamo evitato la trappola dell’“eventificio” descritta da Pierre Bourdieu: la cultura liquida moderna – affermava il sociologo francese – vive di seduzione e non di elaborazioni intellettuali. Non ha gente da educare, piuttosto clienti da soddisfare. Ecco: la nostra preoccupazione è stata quella di far crescere una comunità di cittadini e non di consumatori. E abbiamo offerto un riparo ai tanti orfani delle culture politiche finite sotto le macerie. In definitiva, ritengo che abbiamo vinto due sfide. Ai laici abbiamo dimostrato che i cattolici sanno stare nell’agone pubblico non per interessi di parte bensì per costruire la città di tutti. Ad un certo cattolicesimo autoreferenziale abbiamo detto che fare cultura come “spazio sulla soglia” è una forma alta di carità».


La sua militanza s’è compiuta nella Seconda Repubblica: le sta stretta?

«Il vizio d’origine è che ha portato alla scomparsa della politica proprio nel momento in cui c’era il massimo bisogno di una bussola per il bene comune. Nando Pagnoncelli ammonisce sui guasti del presentismo imperante e io ho sempre in mente il monito di Dossetti, uno dei nostri Maestri, quando invitava a studiare la Storia e a non fermarsi alla cronaca. Come Acli di Bergamo abbiamo sentito l’urgenza di lavorare per una politica migliore, non perfetta. Una politica mite che rigetta la comunicazione ostile, non usa le persone e che progetta a lungo termine. Lo diciamo con onestà, anche a costo di apparire sgradevoli: assistiamo troppe volte al degrado avvilente della rappresentanza politica ad opera di partiti che sfuggono pervicacemente alla loro democratizzazione interna e che manipolano la selezione delle candidature svuotando l’espressione popolare delle preferenze. Partiti del tutto scollegati dalla realtà dei cittadini, incapaci di assolvere alla fondamentale funzione costituzionale loro affidata. Ne è conferma la continua invocazione della delega leaderistica a detrimento dell’autonomia e della responsabilità sociale. La classe dirigente spande generiche promesse o minaccia generici sacrifici: una situazione pericolosa. Incapace, poi, di assumere la giustizia sociale sul piano della redistribuzione e della progressività fiscale in nome di un ingannevole “meno tasse per tutti” e di un trasferimento sulle generazioni future dei costi della solidarietà».


Le priorità dei nuovi bisogni?

«L’inverno demografico è impressionante. L’Italia ha perso oltre 3 milioni di giovani in 20 anni. Siamo un Paese vecchio, certo non per giovani, mentre il peso del debito pubblico ricade sulle spalle dei nostri figli. Il tasso di fertilità è di 1,25 figli per donna, tra i più bassi d’Europa. La mancanza di sostegni alla maternità e alla cura dei figli, e più in generale la presenza di un welfare debole e centrato prevalentemente sulle pensioni e sugli anziani, hanno di fatto messo le famiglie, ma soprattutto le mamme, troppo spesso di fronte alla necessità di scegliere tra avere figli oppure lavorare. Nonostante la retorica che su questi temi abbonda, non s’è investito a sufficienza su asili, scuole, congedi parentali, sgravi fiscali e misure di conciliazione famiglia-lavoro. Poi c’è il lavoro povero e sembra quasi assurdo sottolinearlo in una Bergamasca ricca e dalla piena occupazione. Rifletto spesso sulle “grandi dimissioni” dal lavoro dei giovani avvenute nel post Covid. Vedo un grande smarrimento, direi una mutazione antropologica rispetto al senso del lavoro e del denaro. Qualcosa di profondo e ancora di inafferrabile: lo riscontriamo nei ragazzi che si rivolgono alle Acli. Da parte nostra abbiamo aperto 16 Sportelli lavoro in provincia in collaborazione con aziende locali, con corsi di formazione e un reddito mensile di 450 euro. Il livello di soddisfacimento, cioè la presa in carico delle imprese, è dell’85%».


In positivo che cambiamenti ha rilevato?

«La comunità bergamasca è più capace di prima di stare sulle sfide. Prendiamo l’offerta culturale di gruppi, associazioni e istituzioni: è incredibile e ha cambiato totalmente prospettiva in questi anni. La ricchezza culturale della società civile e di quella ecclesiale è eccellente e diffusa. Un contributo meritorio viene anche dalle scuole e dal corpo insegnanti. C’è però una frattura profonda con le aree interne della provincia e qui bisogna provvedere, perché nei paesi, un po’ alla volta, si stanno smantellando tutti i presidi».


E il cammino della Chiesa?

«Credo che certi segnali critici avvertiti dalla comunità ecclesiale non debbano essere letti in chiave rigida o identitaria, piuttosto come un qualcosa di nuovo che si sta affacciando: una traversata, un percorso sfidante. Sarebbe bello un investimento autentico per la formazione di laici credenti, capaci di stare laicamente e con competenza nella dimensione pubblica. Nel mio intervento di domani ribadirò che le Acli hanno scelto con convinzione di essere nel vivo del flusso della Chiesa tramite ciò che in essa si presenta come un passaggio vitale: il Sinodo. Siamo convinti che si è fedeli al Vangelo solo se nella Chiesa si è realmente in cammino. Certo, è venuto il tempo del coraggio. I cambiamenti in atto sono profondi e irreversibili. La tentazione di qualcuno è di tornare indietro verso lidi che non ci sono più. Non serve rimpianto, né risentimento né fuga. Occorre abitare con speranza e fiducia il tempo presente, stare da uomini dove gli uomini vivono, discernere come essere per tutti un segno, per ridire, nella città plurale, l’unica cosa che i cristiani hanno di prezioso: l’umanità del Vangelo. Deve diventare compito e responsabilità di tutti, quindi anche nostra. In ogni caso – e qui, in fondo, mi pare di intravedere la fatica del tempo – a stare con fede, la sola che rende capace di scorgere dentro le crepe del presente i varchi dentro i quali, spesso inaspettatamente, il nostro Dio si fa trovare».

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