PRETI SOLI. TREMENDAMENTE SOLI.
di Daniele Rocchetti | @labarcaeilmare
Mi capita spesso di incontrare amici preti che vivono con passione e impegno i loro numerosi impegni pastorali e che restituiscono, oltre alla gioia del loro servizio, anche le fatiche di una condizione che sta attraversando, da parecchio tempo, una situazione di crisi quasi mai tematizzata e fatta oggetto di un confronto
Per questo, ho voluto rileggere con attenzione l’articolo di padre Giacomo Cucci pubblicato da Civiltà Cattolica nel quaderno 4152 il 17 giugno di quest’anno (si può leggere integralmente sul sito). Il titolo pone una questione importante e che non può essere presto rimossa: “Solitudine e disagio del prete: un problema strutturale?”
Troppi impegni, la scarsa cura della vita interiore, una formazione inadeguata…
Nel commentare alcune ricerche effettuate negli anni scorsi attorno al malessere dei preti vengono fatte emergere alcune cause. In particolare il burnout, anche se gran parte dei preti intervistati non ha usato questo termine e spesso neppure lo conosce. Si rilevano piuttosto delle precise cause esterne (molteplicità degli impegni, complessità delle problematiche, la sensazione di essere dei “funzionari del sacro”, che erogano servizi asettici a fedeli indifferenti)]. Altri lamentano la scarsa cura della vita interiore e un conseguente vuoto affettivo, che porta a considerare il celibato come un peso.
La formazione ricevuta ha insistito in modo esasperato sull’aiuto ad altri e sul dono di sé, a scapito della cura personale
La formazione ricevuta è un’altra causa di burnout: si è insistito in modo esasperato sull’aiuto ad altri e sul dono di sé, a scapito della cura personale e del creare un clima di comunione e amicizia nel seminario e in seguito con i presbiteri. Padre Cucci fa riferimento poi ad una ricerca condotta da Alessandro Castegnaro, presidente dell’Osservatorio socio-religioso del Triveneto (Osret) che giunge alle medesime conclusioni.
I troppi compiti ai quali il prete non è stato preparato
Un crescente senso di inadeguatezza ad affrontare le problematiche odierne, per la mancanza di preparazione e soprattutto di tutela giuridica e personale (come la possibilità di confrontarsi con un supervisore). Più che al tempo dedicato al ministero, la causa del disagio è in buona parte legata alla crescente burocratizzazione: al numero dei fronti da gestire si aggiunge la lorocomplessità. Il prete si trova di fronte a compiti per i quali non è stato preparato. Da lui si richiedono competenze amministrative e giuridiche che non possiede. Tutto ciò alla fine lo rende più simile a un cattivo manager che a un buon pastore.
Un parroco ha sintetizzato così la sua situazione: «Anche i padri di famiglia si devono occupare della caldaia; io ne ho sette!»
Un parroco ha sintetizzato così la sua situazione: «Anche i padri di famiglia si devono occupare della caldaia; io ne ho sette!». Si tratta di un disagio destinato a crescere, perché spesso i preti hanno diverse parrocchie da amministrare, senza risiedere in nessuna di esse, e ai compiti amministrativi si aggiungono le responsabilità canoniche, civili e penali. Da qui la difficoltà ad affidare ad altri tali mansioni: «Delegare funzioni senza delegare responsabilità è poco praticabile […]. Di particolare rilievo sono gli effetti che tutto questo induce sull’offerta liturgica, e non solo nei casi in cui il prete è ormai ridotto a vivere una sorta di rally eucaristico a ogni festa. I preti stessi riconoscono una scarsa capacità di comunicazione e ne soffrono».
Rapporti di tipo burocratico. Scarse relazioni, anche con i confratelli
Il burnout è una delle conseguenze principali, che per il prete, rispetto alle altre professioni, ha come caratteristica peculiare la «spersonalizzazione», cioè la tendenza a vivere i rapporti con le persone senza partecipazione emotiva, in modo burocratico e ripetitivo: un vulnus terribile che va a minare profondamente la sua idealità, da sempre associata (e riconosciuta) alla sua «umanità».
Poverià di relazioni, soprattutto con i fedeli, accentuata dal fatto che non si è mai vissuta una fraternità presbiterale
La solitudine, specie tra i più giovani, legata al senso di spersonalizzazione. Si tratta infatti non tanto di una solitudine sociale o familiare, ma «ministeriale, ecclesiale», povera cioè di relazioni, soprattutto con i fedeli, accentuata dal fatto che non si è mai vissuta una fraternità presbiterale: «Il presbiterio in particolare, al di là di una patina superficiale di cameratismo, non sembra essere un ambiente capace di attivare relazioni umanamente ricche. Emerge dunque un problema che investe direttamente i rapporti umani nella Chiesa […]. Il presbiterio non fa squadra, l’io prevale sul noi. Mancano funzioni di supervisione pastorale e mancano occasioni per sviluppare un lavoro di laboratorio pastorale, che permetta un confronto con le esperienze vissute dai confratelli. E così ognuno resta da solo con i propri problemi».
Questa situazione innesca un pericoloso circolo vizioso: il burnout accentua la negativa percezione di sé da parte del prete e rende sempre meno attraente per un giovane tale scelta di vita; la diminuzione delle vocazioni a sua volta costringe il prete a un carico di lavoro sempre più pesante, che rischia di sommergerlo. Il suo primo pensiero diventa come sopravvivere a tutto ciò, selezionando i fronti, lasciandone alcuni disattesi o vivendo una perenne situazione di emergenza.
Alla fine, una strana drammatica forma di solitudine
Dopo aver presentato questi dati, padre Cucci si chiede se i preti sono “soli per scelta”. Perché tutte le ricerche mostrano come quasi mai la sindrome arriva all’improvviso. Eppure, pur avendo bisogno di aiuto, buona parte dei preti sembra restia a chiederlo e a riceverlo, convincendosi che deve darsi da sé la soluzione al proprio malessere. Gli intervistati rilevano in particolare – e la cosa mi ha molto colpito – di non aver mai coltivato una vera amicizia fraterna con altri presbiteri; altri preferiscono essere soli piuttosto che in compagnia di altri preti, soprattutto per il timore di sentirsi giudicati. La solitudine diventa così una forma di tutela della propria intimità.
La solitudine diventa una forma di tutela della propria intimità
Non solo: il gesuita autore dell’articolo si chiede se se a questa situazione possa contribuire anche una certa modalità formativa, che porta a pensare il ministero presbiterale come un’avventura da condurre in solitaria. Il sacerdote diocesano è solitamente pensato per vivere da solo: la vita comune è propria degli anni di seminario. Da qui la tendenza a viverli come una parentesi artificiale, molto diversa dalla vita «vera» che lo attenderà dopo l’ordinazione, e quindi a considerare gli altri seminaristi come compagni di un viaggio momentaneo da cui si separerà una volta giunto a destinazione.
Insomma, queste sono alcune delle questioni (decisive) e delle sfide (irrinunciabili) a cui i preti oggi sono chiamati ad affrontare (e non a rimuovere). Ci stiamo ragionando o lasciamo tutto all’impegno e alla fatica dei singoli? Quali risposte stiamo ecclesialmente tentando di dare?