Ostacoli da superare. L'importanza delle filiere etiche contro il caporalato.
di Leonardo Becchetti su Avvenire
Lo sfruttamento del lavoro è purtroppo una nota costante della nostra economia in alcuni settori ed alcune aree (raccolta agricola in primis) ma facciamo finta di non accorgercene salvo ciclicamente tornare ad indignarci e a stupirci quanto un fatto di cronaca particolarmente efferato rende impossibile non accorgersi del problema. Così è stato purtroppo per la drammatica morte di Satnam Singh, uno dei tanti addetti irregolari in agricoltura che lavorando in un’azienda in provincia di Latina ha perso il braccio in un incidente di lavoro. Il datore di lavoro, piuttosto che soccorrerlo e portarlo in ospedale, ha pensato bene di non chiamare l’ambulanza riportandolo davanti casa assieme all’arto amputato per evitare potesse emergere l’irregolarità (è il famoso “se si fa qualcosa di irregolare sono guai” che abbiamo sentito tante volte). Quando sono finalmente stati chiamati i soccorsi era troppo tardi.
Sarà la giustizia ad occuparsi delle gravi responsabilità legate a questa vicenda (ieri il datore di lavoro è stato arrestato e la Regione si è già costituita parte civile) ma al solito è partito il dibattito sulle vie per affrontare il problema di cui abbiamo visto soltanto la punta emersa in tutta la sua crudeltà. E con essi il solito sacrosanto appello ad una maggiore severità e rigore nei controlli. È evidente che lo auspichiamo tutti ma rischia come in passato di essere solo retorica del momento.
Da decenni il mondo del consumo responsabile cerca di contribuire alla soluzione costruendo e promuovendo filiere giuste e senza sfruttamento e facendo appello al “voto col portafoglio” dei cittadini e ai loro consumi responsabili. Il voto col portafoglio è potenzialmente l’uovo di Colombo. Se tutti compriamo le passate di pomodoro “caporalato free” (per fare un esempio) il caporalato nella raccolta del pomodoro sparisce. È una proposizione quasi tautologica e non confutabile in sé. La realtà è diversa perché esistono almeno sei ostacoli che ci impediscono di raggiungere questo traguardo: troppe persone non sono consapevoli della potenzialità di questo gesto, le informazioni sulla maggiore o minore sostenibilità e dignità del lavoro dietro i prodotti non è completa, il risultato si realizzerebbe se coordinassimo le nostre piccole scelte di consumatori individuali, i prodotti “etici” costano spesso un po' di più e, anche quando non è così, le persone hanno costi psicologici legati al cambio delle abitudini. Infine, le filiere “etiche” hanno poche risorse per la pubblicità dei propri prodotti e dunque i miliardi spesi nel marketing da chi non s’impegna minimamente nella sostenibilità, o finge di farlo, finiscono per orientare le scelte dei consumatori.
Eppure non è vero che nulla si muove perché lentamente in questi decenni il progresso nelle scelte civiche c’è stato. Nel 1997 la raccolta differenziata era al 9% mentre in un’indagine rappresentativa sui cittadini italiani svolta quest’anno è arrivata al 90%. Nella stessa indagine quasi il 40% degli intervistati dichiara di fare attenzione agli aspetti sociali e ambientali dei prodotti e poco meno del 30% di acquistare almeno qualche volta prodotti certificati green (per non parlare del progresso della diffusione dei prodotti green in ambito di risparmio). La storia della raccolta differenziata testimonia che negli anni, quando l’infrastruttura abilitante è a disposizione e la sensibilità dei cittadini cresce, il comportamento civico può diventare la norma sociale. Cosa manca allora al consumo responsabile? Senz’altro una diffusione più capillare delle informazioni sulla qualità del lavoro e sulla sostenibilità ambientale dei prodotti oggi tecnicamente possibile con i progressi sulla tracciatura. Ricordo i primi dibattiti sul tema quando si concludeva sull’impossibilità di scrivere tutta l’informazione necessaria in caratteri piccoli e poco visibili sulle confezioni dei prodotti. Questo problema non esiste più nell’era dei QR code.