Le vite sospese della guerra

LE VITE SOSPESE DALLE GUERRE

 

@LaStampa

di Francesca Mannocchi 

 

Kharkiv. Ci sono cose che sembrano difficili da tenere insieme. I caduti e i sopravvissuti. La
memoria delle vittime e quella dei carnefici. La distruzione e la vita che va avanti. L'estate e la
guerra.


Kharkiv è così, mentre attraversa la sua terza stagione sotto attacco. L'inverno dell'invasione, la
primavera della controffensiva, l'estate della vita sospesa.
È domenica, le strade nella zona Nord della città vivono di silenzi, le serrande dei negozi sono
chiuse. Sembrerebbe un normale giorno di festa, illuminato dal sole di luglio, se non fosse che quasi
tutti i mezzi lungo le strade sono mezzi militari e chi cammina indossa un'uniforme.
La notte di sabato alle due e trentacinque la città è stata di nuovo svegliata da quattro colpi sordi,
uno dopo l'altro, che hanno colpito il distretto di Kyvsky. Danneggiati gli uffici, un'abitazione civile
di cinque piani e una base militare in cui non è possibile accedere. I soldati sono nervosi, non
vogliono mostrare niente, né parlare con nessuno. Devono portare via i mezzi in fretta e dividersi.
Tenere troppe unità nello stesso luogo significa rischiare troppe perdite in caso di attacco. Un
pericolo che l'esercito ucraino non può permettersi, soprattutto ora che i russi stanno cercando di
tenere gli insediamenti già occupati e tentano di attaccare in altre direzioni, colpendo ogni giorno
infrastrutture, depositi di distribuzione di aiuti, scuole, ospedali, asili nido, musei, chiese, edifici
residenziali lungo le strade che da Kharkiv conducono al confine verso Belgorod.
L'ultima volta che Ivan, un soldato delle unità di controllo dei confini, ci aveva accompagnato lungo
le strade che da Kharkiv portano in Russia, l'esercito ucraino contava i villaggi che ogni giorno
tornavano sotto il controllo di Kiev. Era maggio, la sua famiglia si era trasferita nella città
occidentale di Ivano-Frankivsk a cercare riparo dai parenti della moglie, Ivan non vedeva lei e i figli
già da due mesi ma era sereno perché li sapeva in luogo sicuro. Poi c'è stata la strage del centro
commerciale di Kremenchuk e quella di Vinnitsya, anche loro considerate città sicure, approdi per
gli sfollati interni perciò oggi alla domanda: «come sta la tua famiglia?» Ivan risponde: «Come tutti.
Anche mia moglie passeggia in strada col passeggino, solo che da qualche settimana quando esce di
casa si chiede se toccherà a lei morire».
Due mesi fa di Ivan colpivano l'abnegazione e la pacatezza. Il suo morale era alto, come quello
delle truppe. Leniva la distanza da sua moglie e dai figli con la riconoscenza che lui e gli altri
soldati ricevevano dalla gente, entravano nei paesi, le persone andavano loro incontro esausti ma
grati, gli anziani abbracciavano i soldati e si ricongiungevano con i familiari che non vedevano da
febbraio. Oggi quando Ivan e i suoi si fermano a verificare come sta riprendendo la vita nelle aree
liberate, la prima cosa che la gente chiede è quando tornerà l'elettricità, e quando sarà ripristinata
l'acqua.
Glielo ha chiesto anche Tetiana Bezruk, la proprietaria dell'unico negozio di generi alimentari del
villaggio di Bezruky, siede all'esterno della bottega su una sedia di plastica blu. Alla sua destra
Kharkiv, a sinistra, a 30 chilometri, la Russia. Nel negozio non c'è corrente dal 27 febbraio, Tetiana
ha comprato un generatore e paga la benzina due euro al litro per farlo funzionare notte e giorno. Ha
i congelatori e bisogna mantenere il cibo. Era seduta sulla stessa sedia lungo la strada che taglia il
paese quando una colonna di mezzi russi le è passata di fronte puntando verso Kharkiv.
Il villaggio di Bezruky non è mai stato occupato, è stato un ponte che però ha ingoiato chi viveva lì.
Perché dopo che la colonna di mezzi ha superato il paese, per chi era rimasto dentro non c'era
comunque via d'uscita anche se le truppe russe non si erano stabilite lì.


Allora Tetiana continuava a sedere sulla stessa sedia blu ogni giorno, ma a sinistra c'era la Russia e
a destra gli occupanti. Andarsene per lei non è mai stata un'opzione. Nemmeno quando la colonna è
tornata indietro respinta dall'esercito ucraino. Tetiana ha aiutato le giovani famiglie con bambini a
raggiungere i mezzi di evacuazione ed è rimasta lì a fare quello che poteva, nella sua Bezruky
sempre più vuota, ma non muta. Tetiana ha imparato, restando, a distinguere il rumore delle armi e
non si scompone più, oggi che dai boschi vicini partono le vibrazioni dei colpi ucraini che tentano
di raggiungere le posizioni russe. L'altra cosa che dice di aver imparato è a fare a meno delle cose:
«quello che non è facile è sopportabile». E a Bezruky la vita facile, certo, non è nemmeno dopo la
liberazione.
L'esercito russo è avanzato due volte su Kharkiv e per due volte è stato respinto, ma le forze armate
russe controllano diversi insediamenti nella cintura a Nord della città e stanno di nuovo colpendo i
villaggi vicini e inviando di nuovo truppe di terra.
Ivan pensa che sia prematuro pensare a una nuova offensiva ma certo le cose nelle ultime settimane
sono cambiate e i russi non si limitano più ad attacchi mirati con l'artiglieria pesante ma fanno
avvicinare le squadre di ricognizione, di notte, verso le postazioni ucraine.
Per questo i soldati di guardia ai check point guardano chiunque con scetticismo, bloccano le
macchine civili, hanno ripristinato le frasi in codice anche all'interno delle forze armate per superare
i posti di blocco e l'esercito ha rafforzato i raggruppamenti tra i villaggi di Udy, Slatyne e anche
Bezruky, inviando nuove unità della Difesa Territoriale, i mercenari stranieri e il battaglione
nazionalista Kraken nella zona di Staryi Saltiv e Molodova, in previsione di un possibile attacco
russo sul fiume Siverskyi Donets.
Anche Bezruky, perciò, è spesso sotto attacco. Due settimane fa un missile ha ucciso una bambina
di otto anni e mentre sua madre Margarita le baciava il corpo steso nella bara, il rumore
dell'artiglieria era più forte delle campane della chiesa che suonavano a lutto.


Margarita e la sua famiglia non se n'erano andati perché non avevano un altro posto dove stare.
È una frase che attraversa i continenti e i secoli, quella di chi resiste nonostante il timore di morire:
«Resto perché non saprei dove altro andare». Una frase che mostra l'ostinazione della vita prima
dell'incoscienza del pericolo.
Non sapere dove andare, in guerra, ha un doppio significato. Il primo tiene insieme lo spazio e il
tempo, il senso che le persone danno alla propria terra che non è soltanto il possesso di una casa o di
un lavoro ma l'appartenenza radicata a uno spazio che rappresenta tutto il tempo vissuto, l'esistenza
intera. E poi «non sapere dove andare» significa anche che la guerra opera una selezione brutale sui
vivi, perché spesso a rimanere sono i più deboli, i più spaventati dal cambiamento, quelli che hanno
meno speranza: i più poveri, gli anziani.
Come quelli che entrano nella bottega di Tetiana, arrivano con le buste di plastica stropicciate e
chiedono un po' di pane, latte e verdura e ogni giorno le dicono che «questa guerra proprio non la
capiscono».
Metà degli scaffali sono vuoti, il banco della frutta è anch'esso vuoto e la gente vive di quello che si
trova. La guerra trasforma le abitudini in adattamento. La vita in luoghi come questo, dove i
combattimenti si sentono a chilometri di distanza e la pace non c'è ancora, è una sospensione tra un
passato a cui si tenta di non pensare e un futuro che non arriva. Il passato di civili trasformati in
soldati o quello una commerciante di cinquant'anni come lei, che diventa il riferimento di una
comunità.
È primo pomeriggio quando un anziano arriva in bicicletta, la sistema sul muro del negozio di
Tetiana, lei lo saluta con un affetto che dice qualcosa di più della consuetudine.
L'uomo entra, sceglie il pane da portare via, chiede se è rimasto qualcosa da mangiare per i suoi
gatti. Tetiana prepara il sacchetto, «a domani Yuri», «a domani».
E se ne va.
Yuri viveva con i figli e le figlie. Se ne sono andati tutti a febbraio. La paura, i bambini da mettere
in salvo. Due sono andati all'estero e due a Leopoli. Yuri ha deciso di restare perché Bezruky è tutta
la sua vita, è il suo spazio e il suo tempo. Nessuno dei figli è mai tornato indietro.
Anche per lui la vita, oggi, è adattarsi a quello che si è diventati: un uomo che la guerra ha reso
solo.

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