Il Sinodo, i ministeri e i carismi

Il Sinodo, i ministeri e i carismi

di Severino Dianich

 

È vero che le ricorrenze di una parola in un testo possono non significare alcunché, però è anche vero che forniscono degli indizi. Nell’Instrumentum laboris per l’assemblea sinodale del 2023 il lemma “ministero” ricorreva 14 volte e solo 8 volte ricorreva il lemma “carisma”. Nell’IL della prossima sessione, “ministero” ricorre 70 volte e 27 volte ricorre “carisma”.

 

 

I ministeri

 

Sembra, quindi, si sia fatto un certo cammino che conduce a dare maggiore rilevanza, in ordine al desiderato sviluppo della sinodalità e della missione della Chiesa, sia ai singoli fedeli in quanto dotati ciascuno di suoi particolari carismi, sia, sul piano delle istituzioni, ai ministeri.

 

Considerata la vistosa presenza, nella conversazione sinodale, dei termini ministero e carisma, sembra utile proporre alla vigilia della nuova assemblea, una riflessione sul significato dei due termini e sul loro rapporto. Intendendo per ministero, però, non un qualsiasi servizio che un cristiano offre alla sua comunità, bensì l’esercizio di un incarico attribuito formalmente, in una forma o nell’altra, ad un fedele. Negli altri casi, infatti, si tratta semplicemente di un esercizio abituale di un proprio carisma da parte di un fedele. Se, quindi, vogliamo chiarire il rapporto fra i carismi e i ministeri, dobbiamo pensare ai ministeri come a incarichi che il fedele ha ricevuto.

 

Lungo il cammino sinodale troppo si è parlato di ministeri in rapporto alla qualificazione e valorizzazione delle persone che ne vengono incaricate, mentre per sua natura il ministero non è destinato a qualificare le persone, bensì a rispondere a un bisogno della comunità.

 

L’IL della prossima assemblea sinodale, registra al n. 15 che «le Conferenze episcopali… chiedono di esplorare ulteriori forme ministeriali e pastorali per dare migliore espressione ai carismi che lo Spirito effonde sulle donne in risposta alle esigenze pastorali del nostro tempo». È così che, molte volte, si è insistito, a proposito delle donne, sull’idea di dover loro attribuire, per valorizzarne l’operosità nella Chiesa, nuovi e particolari ministeri.

 

Ovviamente, si tratta di un riflesso condizionato del fatto che, a proposito di ministeri, alle donne è inibito il conferimento del ministero più alto, quello del sacramento dell’Ordine: poiché non possono diventare preti, a protezione della comune e uguale dignità di tutti i fedeli, bisogna dare alle donne nuovi e particolari ministeri.

 

Un altro indizio di un uso deviante del termine è osservabile nel n. 30 dell’IL, dove ci si preoccupa di precisare che «i ministeri istituiti sono conferiti dal vescovo a uomini e donne, una sola volta nella vita». Se, infatti, si pensasse il ministero come risposta a un bisogno, si potrebbe anche affidare a un fedele un ministero da esercitare fino a quando la comunità ne avrà effettivamente bisogno. Utilizzando la categoria, più per qualificare le persone che per promuovere la risposta ad un bisogno della comunità, accade che, invece di promuovere, come si pretende, la «vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo» (LG 32), si perviene, al contrario, ad una reduplicazione ulteriore della differenziazione gerarchica nel popolo di Dio. Non più solo due categorie, clero e laici, ma tre: clero, ministri e fedeli comuni.

 

In conclusione, non sarà la moltiplicazione dei ministeri la via sulla quale si riuscirà a promuovere la soggettualità di tutti i fedeli nella missione della Chiesa.

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