IL RICORDO DI DON SERGIO COLOMBO
Nove anni fa, moriva don Sergio Colombo.
La crisi attuale della Chiesa ci fa sentire ancora più dolorosamente quella perdita.
Abbiamo pensato utile tornare a ricordarlo, a scoprire qualcosa del suo stile di credente e di prete.
Partiremo proprio dalla sua morte (questo articolo: Maria Grazia Capello). Torneremo indietro per raccontare qualche cosa della sua ricchissima personalità di uomo e di prete (articoli di Lucia Gandolfi e Laura Medolago), la sua passione per la liturgia (don GIuseppe Sala) e per l’arte (don GIuseppe Sala e Francesco Parimbelli), la sua raffinata cultura che non aveva però nulla di elitario (Francesco Mazzuccotelli), il suo rapporto stretto insieme rispettoso per la “città” e più in generale con la politica (Franco Pizzolato).
Torneremo ai lontani inizi di antiche amicizie che hanno contribuito a forgiare l’uomo Sergio Colombo (Alberto Carrara), con uno struggente “arrivederci” finale (don Alberto Varinelli).
E’ nota l’affermazione del libro del Siracide: “Alla morte di un uomo si rivelano le sue opere. Prima della fine non chiamare nessuno beato; un uomo si conosce veramente alla fine”.
Mi sono ricordata di questa frase quando ho dovuto raccontare come è morto don Sergio. È morto da uomo, da cristiano, da prete. È stato toccato anche lui dall’esperienza della malattia e della morte; ha attraversato, come tante donne e uomini, l’abisso in cui si sprofonda quando si soffre. E ha vissuto in prima persona tutti gli effetti, nel bene e nel male, di questa esperienza.
Ha parlato di malattia e morte molto prima di ammalarsi e di morire
Nei lunghi anni di presenza come parroco nella comunità parrocchiale di Redona gli approfondimenti e le riflessioni su malattia e morte sono stati davvero tanti. Non c’era Anno Pastorale che non contenesse itinerari dedicati, omelie specifiche, percorsi formativi e, soprattutto, la Giornata dell’Anziano e dell’Ammalato con il Sacramento comunitario dell’Unzione degli Infermi. Uno dei “segni forti” con cui apriva il cammino pastorale. Don Sergio ha sempre dimostrato una particolare premura per coloro che vivono la sofferenza e sollecitava a lasciarci coinvolgere, a non scappare, a non perdere i legami, a vivere e ad attraversare la sofferenza nella fede. Le riflessioni che ci ha proposto negli anni hanno tracciato una strada che è stata, soprattutto, attraversata dalla fiducia, dall’affidarsi alla medicina ma anche alla preziosa cura umana e ad affidarsi, soprattutto, al volto di Dio che amorevolmente chiamava “divina dolcezza”.
Sollecitava a lasciarci coinvolgere, a non scappare, a non perdere i legami, a vivere e ad attraversare la sofferenza nella fede
Ha condotto la sua comunità parrocchiale dentro grandi temi in cui ciascun cristiano è chiamato a riflettere: l’aldilà; la vita e la morte; la prova nella malattia; il lutto; la maniera in cui oggi si vivono la sofferenza e la morte; la cremazione; i funerali. In alcune occasioni si trattava di veri e propri itinerari, come il Triduo dei Morti, e tutti ci sentivamo interpellati e spesso emozionati perché accogliendo quei cammini avvertivamo che “le cose della morte” che ci facevano sempre paura prendevano una forma delicata di cui comprendevamo il segreto dell’umana compassione. Un ricordo indelebile credo lo abbiano tutti coloro che hanno pregato con lui in occasione della morte di un proprio familiare: la profondità e la verità con cui, di fronte al defunto, recitava la preghiera del commiato “Parti, anima cristiana, da questo mondo, nel nome di Dio Padre onnipotente che ti ha creato…” lasciava nel cuore di ciascuno il segno di una presenza “Altra” che faceva sentire che “in quel partire” nessuno era solo.
Poi è toccato a lui attraversare l’abisso
Poi è toccato a lui attraversare questa esperienza. Don Sergio amava condividere con la sua comunità tutto il suo “pensare” e il suo “sentire”e lo ha fatto anche nei mesi della malattia. Significative e ricche del racconto della sua esperienza sono le lettere che ha scritto rivolgendosi con affetto e con trepidazione alla sua comunità: la prima subito dopo l’intervento nella quale ha descritto “la vertigine della sua anima” tra un misto di paura e di coraggio, di fiducia e di sconforto, di speranza e di incertezza, in una altalena di sentimenti nei quali la fede è stata l’esperienza predominante.