di Vittorio Pelligra | Lunedì 2 maggio
IlSole24Ore
La pandemia ha causato milioni di morti in tutto il mondo ed è stata combattuta con uno sforzo collettivo internazionale. Un simile sforzo, paradossalmente, oggi ci impegna in una guerra il cui esito, in termini di vite umane, speriamo non si avvicini neanche lontanamente a quel tragico bilancio. Questo è lo scenario in cui ci trova immersi l'arrivo di questo primo maggio, Festa del Lavoro, Festa dei Lavoratori. Le cure sanitarie e la produzione del vaccino volti a salvare vite, da una parte, e la produzione di armi e il mestiere della guerra volti a distruggere e a uccidere, dall'altra. In mezzo a questi due estremi una enorme varietà di attività, i nostri lavori, non tutti uguali.
C'è chi produce ed usa bombe a grappolo, chi ha progettato i «pappagalli verdi» pensati per mutilare i bambini, le bombe al fosforo o quelle termobariche che producono nuvole esplosive che si incendiano per togliere letteralmente il respiro alle vittime. Ecco, davvero possiamo dire che questi siano lavori degni? Che tutti i lavori sono ugualmente degni? In questo primo maggio, Festa dei Lavoratori, occorrerebbe affermarlo con chiarezza e coraggio che non tutti i lavori sono ugualmente degni, sono ugualmente necessari, che non tutti i lavori hanno lo stesso valore.
Un lavoro degno, misura di civiltà
La civiltà di una nazione, allora, di una cultura, della nostra cultura europea ed Occidentale, non può non misurarsi, oggi, con la sua capacità di immaginare, generare e offrire un lavoro degno a tutti. Non un lavoro e basta, perché un lavoro non basta. Servono lavori degni. È davvero paradossale che mentre Keynes negli anni '30 prevedeva, entro la fine del secolo, la possibilità di lavorare tutti per non più di quindici ore a settimana, oggi, il lavoro sembra non avere più un orario e soprattutto sembra aver perso, in molti casi, il suo stesso significato. Una questione sulla quale nessuno sembra essere disposto confrontarsi.
Scriveva qualche tempo David Graeber: «Che cosa si può immaginare di più demoralizzante del doversi svegliare ogni mattina per portare a termine un compito che in cuor nostro crediamo non andrebbe svolto perché è solo uno spreco di tempo o di risorse, oppure perché addirittura rende peggiore il mondo? Non rappresenterebbe una terribile ferita psichica per la nostra società? Probabilmente sì, ma è uno di quei problemi di cui nessuno sembra intenzionato a parlare» («Bullshit Jobs». Garzanti, 2018). Ci sono lavori che rendono peggiore il mondo e l'aver intrappolato moltitudini di lavoratori, così come ci dicono i dati di recenti studi, in queste occupazioni, produce moltitudini di ferite psichiche che, per il semplice fatto di non sanguinare, non infliggono certamente meno dolore delle ferite fisiche.
Abbiamo bisogno di lavoro, è vero, ma soprattutto abbiamo bisogno di lavoro degno. I giovani che danno corpo alla great resignation, le «grandi dimissioni» ci dicono questo, così come le tragiche «morti per disperazione» che affliggono gli Stati Uniti dall'inizio del secolo. Il lavoro è indispensabile ma ancora di più lo è «sentirsi utili e perfino indispensabili», come scriveva Simon Weil, questo è un vero «bisogno vitale dell'anima» di cui è deprivato non solo il disoccupato, ma anche ci si trova intrappolato in un lavoro socialmente inutile o perfino dannoso.