Il nuovo cardinale Timothy Radcliffe

Intervista a Timothy Radcliffe, nuovo cardinale

 

di Daniele Rocchetti

 

 

Nei ventuno nomi letti ieri da papa Francesco dalla finestra del Palazzo Apostolico dopo l’Angelus e che saranno nominati cardinali il prossimo 8 dicembre compare anche padre Timothy Radcliffe  che per nove anni, dal 1992 al 2001, è stato a capo dell’Ordine dei Domenicani. Padre Timothy, raffinato teologo e autore di libri di spiritualità di valore e successo,  è stato più volte ospite a Bergamo di Molte Fedi. Ho avuto modo di incontrarlo più di vent’anni fa quando sono salito ad Oxford, in Gran Bretagna. Un pomeriggio intero a parlare di fede e di mondo, di passione per l’uomo e di passione per Dio. Mi sono trovato di fronte ad un uomo di rara lucidità e profondità spirituale, uniti insieme ad una grande ironia. Questo è il testo del dialogo

 

Bernanos ha scritto che «il contrario di un popolo cristiano è un popolo triste». Come mai tendiamo invece a nascondere l’invito alla felicità proprio del messaggio cristiano?

 

La felicità è fondamentale per il cristianesimo. Noi crediamo che Dio ci abbia creato per essere felici e questo non è solo un’emozione: è essere vivi. Il vangelo di Marco comincia proprio con il Padre che si rallegra nel Figlio all’atto del battesimo, «Questo è il mio Figlio nel quale mi rallegro». Questa è la gioia che è il cuore del Cristianesimo e l’intero pellegrinaggio della vita cristiana consiste nel nostro entrare in essa. Perché a volte non sembriamo felici? In parte è perché alcuni cristiani credono che cercare la felicità sembri egoistico, come se questa fosse impedita agli uomini di fede. Anders ha scritto un libro negli anni Trenta nel quale faceva distinzione tra agape, che è l’amore disinteressato, che non cerca ricompensa, e eros che è amore egoistico e centrato sul sé. Fu un libro che ebbe enorme influenza e portò molte persone a dedurre che l’amore veramente cristiano non cercava alcuna ricompensa né felicità. Ma essere felici non è una ricompensa; è soltanto condividere la vita di Dio.

 

 

Eppure a nessuno è risparmiato di fare i conti con il tragico della storia…

 

È vero: per raggiungere questa felicità, dobbiamo osare di passare attraverso la tristezza. L’opposto della felicità non è il dolore, ma l’insensibilità del cuore, il torpore, il cuore di pietra. Proprio come il ritorno di Gesù al Padre è passato attraverso il Calvario, così il nostro ingresso nella felicità di Dio comprende l’abbraccio del dolore, ma andando oltre. I santi più felici sono anche coloro che non hanno temuto questo. San Francesco era colmo di gioia, ma aveva le stimmate. San Domenico rideva di giorno con i suoi confratelli e piangeva di notte per le pene del mondo. In definitiva, poiché la nostra felicità è condividere l’essere di Dio, allora essa è al di là delle parole. Può essere mostrata, ma non vista. Nietzsche si è chiesto molte volte perché i cristiani appaiono così poco redenti!

 

 

Come sottolineare la «differenza» cristiana, l’alterità che nasce dalla Pasqua?

 

La nostra differenza non sta nel fatto che siamo superiori. Gesù è venuto per chiamarci peccatori, e continua a fare così. È importante quindi che la Chiesa sia vista come una comunità in cui tutti siano accolti e si sentano a casa. Le nostre differenze non sono quantitative. Ne ho già menzionate due, un certo tipo di felicità, e la speranza. Un’altra, è la consapevolezza di essere cittadini del Regno. Nella lettera a Diogneto, nel secondo secolo, è detto dei cristiani che «dimorano nei loro paesi, ma semplicemente come ospiti temporanei. Come cittadini, condividono in tutto le cose con gli altri, e ancora sopportano tutte le cose come se fossero stranieri». Credo che per noi, come cristiani, sia vitale che la nostra comunità definitiva sia l’intera umanità, riunita in unità con Cristo. Al di fuori della felicità dell’intera umanità, io non posso star bene. Dobbiamo coltivare un profondo senso dell’essere fratelli (e sorelle!) dell’umanità.

 

 

Com’è possibile comunicare Dio oggi? Con quale linguaggio?

 

La tentazione è di parlare di Dio, come se Dio fosse una persona molto importante ma invisibile, un infinitamente potente ed invisibile Presidente dell’universo, un mega–Presidente americano. Come tutti i grandi teologi sanno, questo è un errore. Dio non è parte dell’Universo. Se si dovesse fare una lista degli oggetti inseriti nell’universo, Dio non sarebbe uno di loro: «200 milioni di conigli, 10000 balene etc. e un Dio». Dio è la sorgente di tutti gli esseri e quindi non un «essere». Egli erompe nelle nostre vite come grazia, come novità, come esplosione di libertà. Quindi non parliamo tanto di Dio come si potrebbe parlare di qualcuno che è nella stanza accanto. Noi manifestiamo l’esplosione di grazia, l’accadere della novità. Le parabole di Gesù mostrano questo accadere. Pensi alla parabola del Fariseo che, ritto davanti nel tempio, ringraziava Dio di non essere come gli altri, mentre, in fondo, il pubblicano peccatore implorava perdono. Alla fine, è questi colui che ne esce giustificato. La parabola rivolta il mondo sotto sopra.

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