Carlo Tombola
Mosaico di pace, 1 dicembre 2022
Economia in armi
Industria italiana della difesa: di cosa parliamo? I primi dati tratti dall'Atlante dell'industria italiana per la difesa.
È un progetto congiunto di The Weapon Watch e Opal, due Osservatori indipendenti sulle armi che contribuiscono con dati e analisi al dibattito pubblico sul tema. Si chiama Atlante dell'industria italiana per la difesa ed è una mappatura interattiva delle aziende che nel nostro Paese producono per il settore militare e la sicurezza.
Il progetto è già stato presentato al pubblico al Festival della Nonviolenza di Torino nell'ottobre 2020, ma sinora l'Atlante non ha trovato "editori" disposti a pubblicarlo, né in forma cartacea né in digitale. Si tratta tuttavia di uno strumento potente, frutto di oltre due anni di lavoro e di applicazioni innovative di analisi georeferenziate di dati. Abbiamo cominciato a utilizzarlo per un compito da tempo urgente, quello di rendere più chiaro cosa significa considerare "militare" una produzione o un trasferimento internazionale, e per circoscrivere il perimetro, quantificando il suo apporto all'economia nazionale. Avvertiamo da tempo molto disagio di fronte a dati che provengono unicamente da fonti aziendali, attraverso la lobby dei produttori – Aiad, la "Confindustria delle armi" – o "esperti" legati alle forze armate.Da parte nostra, abbiamo compiuto un vero e proprio censimento dell'industria italiana della difesa. Abbiamo messo sulla carta geografica circa 950 "punti" connessi con le forniture militari, l'aerospazio, la sicurezza. Abbiamo dato un senso ampio al concetto di "difesa", seguendo in questo le fonti, cioè le aziende iscritte al Registro nazionale degli esportatori, alle associazioni di categoria (oltre ad Aiad, anche Anpam, Conarmi, Afcea ecc.) e alle associazioni sul territorio. Vi abbiamo aggiunto quelle che hanno partecipato ad alcune delle poche fiere internazionali delle armi tenutesi in questi anni di pandemia (Milipol 2019, SeaFuture 2021, Eurosatory 2022).Di quei 950 punti sulla mappa, 761 rappresentano sedi aziendali principali, 123 sono sedi secondarie (come stabilimenti, magazzini, centri ricerche ecc.). I rimanenti punti sono aziende nel frattempo scomparse, fallite o assorbite da altre: rappresentano quasi il 7% del campione, il che dà un'idea della "mortalità aziendale" del settore durante il periodo di raccolta dei dati, coinciso con la fase più grave della pandemia da Covid-19.
Fatturati
Come considerazione generale, 761 aziende sono un numero assai ridotto nel quadro dell'economia italiana, dove operano circa 1,8 milioni di società di capitali (Spa e Srl): cioè sono appena lo 0,04%. Sono quasi tutte aziende dual use, cioè vendono il loro prodotti sia nel mercato civile che in quello militare. È assai difficile stabilire in quale misura partecipino al complesso militar-industriale, se non sono le stesse aziende a precisarlo, nelle loro relazioni di bilancio o attraverso esternazioni dei loro dirigenti, secondo criteri che comunque sono poco o per nulla verificabili. Per questa ragione, non ha molto senso dare dimensione "militare" al fatturato complessivo di queste 761 aziende, che risulterebbe attorno ai 60 miliardi di € all'anno, cioè quattro volte superiore alle stime pre-pandemia dei centri di ricerca confindustriali e militari.Abbiamo, invece, cercato di dare un'approssimazione statistica segmentando questo blocco di aziende in sottogruppi di più sicura definizione. Cioè al gruppo delle 761 aziende appartengono tutte quelle che anche occasionalmente hanno prodotto per le forze armate o sono state sub-fornitori di componenti e servizi di aziende capofila di commesse militari.Il sottogruppo più importante è quello costituito dalle 214 aziende che hanno esportato materiale militare recentemente, cioè negli ultimi sei anni. Abbiamo potuto individuarle grazie alle Relazioni annuali al Parlamento previste dalla Legge 185/1990, strumento che, anche in questa occasione, si è rivelato preziosissimo e indispensabile per un'analisi indipendente. Esportare armi dall'Italia rispettando le leggi comporta un certo onere e numerosi passaggi burocratici. Solo le aziende che sono in grado di adempiere e sopportarne i costi appartengono realmente al complesso militar-industriale italiano, ne costituiscono il nucleo forte. Il loro fatturato complessivo è stato nel 2019 di oltre 23 miliardi di euro, nel 2020 quasi di 21 miliardi (il 10% in meno). Le esportazioni militari autorizzate sono state molto inferiori, 4 miliardi nel 2019 (17% del fatturato complessivo), 3,9 miliardi nel 2020 (quasi 19% del fatturato complessivo). Come sappiamo, di anno in anno, si registrano forti variazioni nelle autorizzazioni alle vendite delle armi italiane all'estero, in conseguenza di mega-ordini che si finalizzano dopo lunghe e complesse trattative, in cui bisogna competere con i grandi gruppi industriali globali. Negli ultimi sei anni hanno toccato il massimo nel 2016 (14,6 miliardi di €) e il minimo nel 2021 (3,6 miliardi). Sono valori approssimati per difetto, rimangono fuori i programmi militari europei, le consulenze di addestramento e i lavori di manutenzione, però possiamo dire che verosimilmente l'export militare rappresenta il 20-25% del fatturato delle aziende di questo sottogruppo.
Spese militari
Per i prossimi anni – in cui già possiamo prevedere che si verificheranno consistenti aumenti delle spese militari degli Stati – è assai probabile che cresceranno anche le esportazioni e i fatturati esplicitamente militari, ne abbiamo già qualche conferma dai bilanci societari del 2021, gli ultimi pubblicati. La maggior parte delle aziende più coinvolte nelle produzioni militari sono di taglia piccola e medio-piccola: il 40% ha fatturato inferiore ai 10 milioni di euro, il 19% tra 10 e 20 milioni di euro. Ma se la guardiamo dal vertice, la piramide del complesso miliare-industriale italiano assume ovviamente un altro aspetto. Le aziende che superano i 300 milioni di fatturato annuo sono solo nove, però concentrano ben il 71% del fatturato del sottogruppo, e il 42% di tutto l'export militare.
Ben cinque tra le prime nove società sono guidate da manager nominati direttamente o indirettamente dal governo, con capitali pubblici, cioè dei cittadini italiani. I primi due posti sono occupati da due grandi aziende pubbliche: Leonardo, colonna portante dell'industria militarizzata italiana, ha come primo azionista il Ministero dell'Economia e delle Finanze, mentre gran parte del restante pacchetto azionario è nelle mani di "investitori istituzionali" (cioè banche e fondi pensione) europei e statunitensi. Fincantieri, leader della cantieristica navale europea, è sotto il controllo di Cassa Depositi e Prestiti. In altre tre società di vertice sono presenti le stesse aziende pubbliche in compartecipazione azionaria: Orizzonte Sistemi Navali è una joint venture tra Fincantieri e Leonardo, quindi anch'essa pubblica; Thales Alenia Space Italia Spa appartiene al gruppo francese Thales, con una partecipazione di minoranza di Leonardo; MBDA è una joint venture europea con Leonardo come socio di minoranza.Altro aspetto contraddittorio è il fatto che in questa ristretta élite cinque aziende su nove non sono in mani italiane, cioè sono sotto il controllo del capitale straniero. Questo pone la nostra autosufficienza nelle forniture militari su un piano meno "nazionale" e più europeo, anzi atlantico, con non pochi importanti riflessi sull'autonomia politica e diplomatica. Oltre alle già citate Thales Alenia Space e MBDA, al terzo posto della classifica troviamo GE Avio, appartenente al mega-gruppo statunitense General Electric; al quarto SKF Industrie, leader mondiale dei cuscinetti a sfera, capitale svedese; al settimo Ferretti Group, leader della cantieristica navale di lusso, a capitale cinese. Sola azienda "italiana" rimane la Iveco Defence Vehicles, ancora nelle mani della famiglia Agnelli attraverso la finanziaria Exor, con sede ad Amsterdam.