Rosarno. Il freddo invernale che gela la testa, mani e piedi non inibiscono il lavoro dei migranti negli agrumeti della Piana di Gioia Tauro. E’una giornata di dura fatica come tante altre, per pochi miseri spiccioli. Esposti al freddo nella raccolta di mandarini, senza protezione di nessun tipo, i “niri” di Rosarno gelano come quelli di Rizziconi. Sono circa duemila i figli del vento in questi sepolcri di sogni e speranze. In questi lager si riparano in tanti, immersi in ciclopici accumuli d’immondizia, in una somma di solitudini individuali che danno l’illusione di comunità.
Il 7 gennaio 2010, come avviene sempre durante la stagione agrumicola, l’alba è stata segnata dallo scricchiolio di biciclette sgangherate, di ombre sfuggenti nella foschia e dal continuo viavai di furgoncini carichi di uomini: l’esercito di lavoratori in cerca della giornata, diretti verso gli agrumeti.
Nel tardo pomeriggio, mentre i braccianti rincasavano stremati al buio, uno di loro viene preso di mira, gli sparano con un fucile ad aria compressa. Schizzano fiotti di sangue dal braccio, non è la prima volta, è successo tante altre a tanti altri. La notizia del ferimento si sparge velocemente. “Ancora?” Si chiedono in tanti, con il sangue agli occhi. “Basta”, urlano i disperati e la reazione non tarda ad arrivare. Parte spontaneamente una sommossa dovuta all’esasperazione.
Come via d’uscita immediata, le forze dell’ordine optano per un’operazione di “pulizia etnica” su larga scala. I subsahariani sono presi di petto e cacciati, sparpagliati qua e là. Semplicemente scaricati a debita distanza da Rosarno. Ma rimane il problema di fondo, quello di sempre, lo sfruttamento, poco tempo dopo infatti sono di nuovo lì nei campi, negli stessi luoghi.
Ciccio Ventrice, volontario della Caritas di Drosi ci racconta:
“La notte del 7 gennaio 2010 a Rosarno li bastonavano per strada, sparavano vicino ai casolari dove questa gente abitava. Loro erano sbandati, spaventati, e parecchi non sapevano dove andare. Con le macchine li abbiamo trasportati via da Rosarno. C’era qui a Drosi un posto che chiamavano “La Collina”: due enormi casolari diroccati. Si accamparono in 270 giovani. Abbiamo cominciato a portare pedane in legno per non farli dormire per terra. Poi ci siamo riuniti, abbiamo parlato, discusso e deciso di cercare delle case da affittare ai giovani migranti. All’inizio hanno acconsentito soltanto quattro proprietari di case.
In undici anni l’esperimento di Drosi si è esteso all’intero territorio di Rizziconi. Oggi le case affittate agli immigrati sono trentadue. Nessuna reggia, s’intende, ma abitazioni con acqua calda e fredda, energia elettrica. Ci abitano 150 immigrati, una media di cinque persone per appartamento. Per garantire il successo del progetto, abbiamo fatto anche da mediatori: andavamo a vedere gli appartamenti, valutavamo quante persone potessero abitarlo, individuando i lavoratori che avevano un impiego abbastanza stabile.
Quando a Drosi spuntarono i primi due africani, la gente protestava: ma quanti “niri” ci sono! Oggi, in un paese dal quale i giovani se ne vanno, avere tutte queste persone che consumano ogni giorno, che vanno a fare la spesa, che la sera si siedono al bar, è una risorsa. E tutti se ne rendono conto. Da un paio d’anni i ragazzi cominciano ad avere i contratti in regola. Dei 150 che abitano a Drosi e Rizziconi, il novanta per cento sono stanziali, se mancano è perché tornano in Africa per brevi periodi di vacanza in famiglia.
E non ci sono tensioni: in tutta Drosi ci saranno sì e no venti italiani che lavorano in agricoltura. Senza gli africani, qui i rovi e le spine sarebbero più alti degli alberi di mandarini”.
Ci avevano raccontato dell’esperienza molto positiva dell’incontro fra gli abitanti di Drosi e gli immigrati, ma conoscendo le realtà di Rosarno della tendopoli e container, isolati e nascosti nella zona industriale, mai avremmo immaginato di trovare un simile modello di integrazione.
Gli immigrati, provenienti in prevalenza dal Mali, Burkina Faso e Senegal occupano una ventina di appartamenti di media dimensione, dislocati su tutto il paese di Drosi. Sfrecciano con le loro biciclette, si siedono sui gradini della porta d’entrata, com’è abitudine anche per i calabresi, cucinano con aromi speziati e inondano di profumi le semplici contrade del borgo. Vicino c’è un campetto di calcio dove verso sera si ritrovano i ragazzi di Drosi con i ragazzi africani, si contendono il pallone per condividere momenti spensierati di aggregazione.
Al bar per un buon caffè, un anziano del paese, incuriosito dalla nostra presenza, è orgoglioso di raccontarci che Drosi è uno dei borghi storici più antichi della Calabria, al tempo dei romani infatti si chiamava “Drusium” e ci saluta dicendo che nei secoli sono passate molte civiltà e culture diverse, da alcuni anni sono arrivati dall’Africa giovani con energie nuove e voglia di far crescere la tanto amata terra calabrese.
