È ora di riequilibrare lo stato sociale a favore dei più giovani

di Gianni Toniolo | sabato 22 maggio 2021

 

 

 

IlSole24Ore

 

 

 

La pandemia ha messo a nudo la debolezza di molti aspetti del nostro stato sociale: nella tutela della salute, nella promozione dell’istruzione pubblica, nell’assicurazione contro la disoccupazione involontaria. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) si propone di affrontare alcuni di questi problemi. Ma resta una domanda: l’impianto complessivo del welfare state italiano è coerente con gli obiettivi di rilancio economico e di maggiore equità? Non si tratta solo di chiederci, questione peraltro non marginale, se sia finanziariamente sostenibile nel medio e lungo andare, ma soprattutto se sia in grado di svolgere compiti necessari alla crescita economica nell’istruzione, nella formazione professionale, nella protezione contro i rischi della disoccupazione. Già il cancelliere Bismarck, nella Germania di fine Ottocento, vedeva nel proprio embrionale programma di sicurezza sociale un vantaggio competitivo nei confronti dell’Inghilterra. Non c’è dubbio che, anche oggi,
uno stato sociale ben disegnato e sostenibile sia indispensabile allo sviluppo economico.

Lo stato sociale, nato timidamente a fine Ottocento e cresciuto negli anni Venti e Trenta sulla spinta del suffragio universale maschile, si è fortemente sviluppato, come istituzione eminentemente europea, solo nel secondo dopoguerra. William Beveridge ideò per il Regno Unito un welfare universalistico: benefici uguali per tutti basati sulla cittadinanza. I Paesi scandinavi seguirono a grandi linee questo modello. Nella maggior parte dell’ Europa continentale la spesa sociale fu invece ancorata in larga parte allo status di lavoratore. I due sistemi rimasero in parte distinti, ma con tendenza a convergere. In tutta Europa, la spesa sociale crebbe rapidamente fino agli anni Settanta, con governi sia socialdemocratici sia cristiano popolari. Il welfare europeo rispose alle condizioni demografiche, dall’organizzazione del lavoro, dalla cultura sociale e politica degli anni dell’“età dell’oro” dello sviluppo europeo.

 

In rapporto al Pil, la spesa sociale non diminuì con il diffondersi delle idee neoliberiste. Nemmeno Ronald Reagan fu in grado di ridurla. I proclami ideologici erano diretti a un segmento dell’elettorato, ma il mantenimento o l’aumento dei benefici sociali era indispensabile a mantenere
il consenso di un’altra parte, maggioritaria, di esso. La riforma sanitaria di Barack Obama fu avversata sul nascere e il suo fato successivo rimase per un po’ in bilico, ma oggi nessuna amministrazione riuscirebbe a smantellarla, come mostra la presidenza Trump. Il welfare state è da molto tempo parte della costituzione materiale europea e nord americana, si sta diffondendo nel resto del mondo.

Il problema non è dunque la dimensione quantitativa dello stato sociale, ma la sua aderenza ai bisogni dell’economia e della società odierne e future. Limitandoci al caso italiano, come ricorda Maurizio Ferrera, uno dei maggiori studiosi in argomento, già nel 1997, una commissione presieduta da Paolo Onofri era stata incaricata di adeguare lo stato sociale italiano alle nuove condizioni economiche e sociali, riducendo le risorse destinate al rischio economico della vecchiaia (iper-tutelato) per impiegarle alla protezione dal rischio reddito/occupazione oggi sotto-tutelato o tutelato solo per una parte di lavoratori. Non tutte le indicazioni della commissione Onofri furono attuate, ma qualcosa si fece. La legge Fornero andava nella giusta direzione. «Il welfare all’Italiana – osserva Ferrera – è diventato un po’ più europeo». Malgrado ciò, esso resta inadeguato sia sul piano dell’equità sia su quello del sostegno allo sviluppo, in un mondo in cui demografia, tecnologia, mercato del lavoro, composizione familiare sono già diversi da quelli del 1997. Due crisi economiche (delle quali una anche sanitaria) hanno reso ancora più tangibile la scissione
tra i cittadini iper protetti e quelli poco tutelati.

Un libro fresco di stampa di Peter Lindert (Making Social Spending Work, Cambridge University Press) analizza, con dati comparati nel tempo e nello spazio, le condizioni di sostenibilità ed efficienza dei sistemi di welfare. Una spesa sociale troppo squilibrata a favore delle pensioni rischia di essere insostenibile ed è poco efficace nella promozione dello sviluppo. L’economia riceve invece una spinta propulsiva quanto più la spesa è orientata ai bambini e ai giovani e alla formazione continua dei lavoratori. Oggi più di ieri, un forte investimento di risorse pubbliche nelle età più giovani è indispensabile sia per la qualità individuale della vita sia per la crescita dell’economia. Quanto alla protezione dai rischi connessi alla ricerca di un nuovo lavoro, alla disoccupazione, per non dire dalla paura di cadere
in povertà, dovremmo seriamente considerare un “ritorno a Beveridge”, che nel 1942 tracciava le linee di uno stato sociale universalistico, con benefici uguali per tutti, sulla base della cittadinanza. Siamo molte volte più ricchi di quanto fosse il Regno Unito nell’immediato dopoguerra, abbiamo una spesa sociale molto più elevata, in assoluto e rispetto al Pil, si tratta di ripensarla per renderla equa ed efficiente nel mondo
che ci aspetta. Se vogliamo la ripresa e soprattutto una solida resilienza per gli anni a venire non possiamo ignorare
questa grande questione. Fu affrontata nel 1997,
perché non si può farlo oggi?

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