Smobilitare o rilanciare: il Parlamento a un bivio

SMOBILITARE O RILANCIARE: IL PARLAMENTO A UN BIVIO

 

In questo autunno, segnato da drammatici eventi a livello internazionale e da numerose e alle volte sterili polemiche sul piano nazionale, due notizie hanno riacceso l’attenzione sul nostro Parlamento. Per ragioni differenti, l’iter di approvazione della Legge di bilancio per il 2024 e il progetto di riforma costituzionale del premierato presentato dal Governo Meloni sollevano numerosi interrogativi sullo stato di salute di questa istituzione, che nel nostro ordinamento giuridico riveste un ruolo centrale, dato che – è bene ricordarlo – l’Italia è una Repubblica parlamentare.
La Costituzione affida al Parlamento il compito di esprimere e farsi interprete della sovranità popolare, rendendolo così lo snodo centrale nelle dinamiche della rappresentanza tra elettori ed eletti, nonché della relazione di fiducia nei confronti del Governo, oltre a essere l’organo che, integrato dai delegati regionali, elegge il Presidente della Repubblica. Tuttavia, la sua rilevanza politica e la capacità di incidere realmente sulle dinamiche sociali sembrano sbiadite nei fatti e agli occhi di tanti cittadini. Fermarsi a riflettere sui processi in atto, prendendo le mosse dall’attualità ma allargando lo sguardo, è un’occasione per chiedersi perché l’istituzione parlamentare stia attraversando questa fase critica e che cosa andrebbe comunque salvaguardato per custodire la democrazia.

Un’istituzione silenziata

La Legge di bilancio contiene le indicazioni fondamentali su come il Governo intende impiegare le risorse economiche a sua disposizione e sull’andamento dei conti pubblici, definendo di fatto l’agenda politica per l’anno successivo, perciò è tra i provvedimenti a più alto tasso politico approvati dal Parlamento. La rilevanza di questo atto legislativo trova riscontro nelle norme che ne regolano l’esame da parte delle Camere, il cosiddetto ciclo di bilancio, che prevedono addirittura la sospensione di ogni attività nelle commissioni che non siano collegate alla Legge di bilancio e una tempistica pensata (il Governo dovrebbe presentare entro il 20 ottobre il disegno di legge di bilancio, una scadenza spesso non rispettata) per assicurare che il Parlamento abbia un congruo periodo per esaminare, modificare e infine approvare la legge di bilancio entro il 31 dicembre.

 

Proprio per la sua rilevanza politica ed economica, la Legge di bilancio si presta a essere il terreno su cui si giocano sia le grandi mediazioni tra i partiti della maggioranza, che cercano di introdurvi le proprie proposte bandiera, sia i tentativi dei parlamentari di far passare singole misure, attente ai bisogni dei propri elettori di riferimento, tanto che spesso è stata usata l’immagine di un “assalto alla diligenza”. Tradizionalmente il testo inizialmente presentato, frutto di un accordo, è poi modificato in più parti, in alcuni casi su richiesta dello stesso Governo, per correggere eventuali sviste ed errori di forma o di sostanza.

Quest’anno, però, c’è una novità di peso: il Governo ha chiesto ai gruppi parlamentari di maggioranza di non presentare emendamenti al disegno di legge per velocizzare l’iter di approvazione e limitare le modifiche. Questa posizione, dettata da valutazioni di carattere politico, non riguarda evidentemente le opposizioni, che rimangono libere di proporre le modifiche ritenute necessarie, ma costituisce un precedente serio, dato che il normale svolgimento della dialettica tra i rappresentanti delle forze politiche nel Parlamento è limitato in modo sostanziale. Tale scelta veicola un ulteriore e preoccupante messaggio di svalutazione del ruolo delle Camere: si può fare a meno dell’apporto dei parlamentari ed è sufficiente l’azione del Governo, oppure – lettura ancora più pericolosa – è meglio imbrigliare l’operato dei parlamentari perché potrebbe essere motivo di intralcio, circoscrivendolo all’approvazione di quando deciso altrove.

Non si tratta purtroppo di un episodio isolato, come dimostrano i dati sull’attività parlamentare nel corso di questo primo anno di legislatura. Il Governo Meloni ha fatto un ampio ricorso ai decreti legge (46 provvedimenti su circa un centinaio di atti legislativi presentati), che per i tempi ristretti di conversione in legge condizionano in modo significativo l’agenda dei lavori parlamentari. L’attivismo legislativo del Governo si evince anche dal fatto che il 70,3% delle leggi approvate dall’inizio della legislatura è di iniziativa governativa1.

 

Questi dati confermano una tendenza in atto da tempo nel nostro sistema giuridico, risalente già agli anni ’90, dovuta a vari fattori, tra cui l’accelerazione delle dinamiche socioeconomiche dovute alla globalizzazione, che sollecitano iter decisionali più rapidi, e lo scricchiolio seguito dal successivo crollo del sistema partitico della Prima Repubblica, che aveva nelle aule parlamentari il suo fulcro, e l’emergere di nuove forze politiche portatrici di visioni ben diverse, come Forza Italia, la Lega Nord e più tardi il Movimento 5 Stelle. Sebbene non vi sia stata una modifica formale della Costituzione, il potere legislativo, che ha nel Parlamento la sua istituzione cardine, si è progressivamente dislocato nelle mani del Governo attraverso i decreti legge, la delega legislativa o l’imposizione del voto di fiducia su maxiemendamenti, che riguardano interi atti legislativi da votare in blocco senza essere discussi, al punto da circoscrivere sensibilmente e quasi rovesciare l’assunto costituzionale che il Governo rende conto del proprio operato al Parlamento. Questo processo è stato alimentato anche dalle modifiche del sistema elettorale introdotte nel corso degli ultimi trent’anni, caratterizzate da una spinta per il maggioritario e dalla ricerca di una forma di legittimazione popolare dei politici indicati come futuri Presidenti del Consiglio in caso di successo elettorale. Gli esiti di questo percorso si sono tradotti nell’alterazione di fatto della dinamica prevista dalla Costituzione tra Governo e Parlamento, a scapito di quest’ultimo.

 

A tutto ciò si aggiunge l’immagine del Parlamento emersa nella campagna per il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. L’insistenza da parte delle forze politiche sui risparmi economici e sul carattere sovradimensionato delle nostre Camere ha rafforzato nell’opinione pubblica l’impressione che sia un ente inutile. Per questo, l’immagine dell’esproprio utilizzata da parte di alcuni studiosi rende bene l’idea della trasformazione del Parlamento in un organo costituzionale «meramente ratificante delle mutevoli decisioni assunte dal Governo», svuotato della sua funzione tanto legislativa quanto di controllo2.

Equilibri costituzionali smarriti

Le prospettive per il futuro non sono incoraggianti, se si considera quanto previsto nella «madre di tutte le riforme» presentata dal Governo Meloni. Il disegno di legge costituzionale interviene su pochi articoli (artt. 59, 88, 92 e 94 Cost.) con l’intento dichiarato di assicurare una maggiore stabilità e continuità di azione ai Governi del nostro Paese, che tradizionalmente hanno breve durata (dal 1946 a oggi si sono succeduti 68 Governi). Per raggiungere questo obiettivo, la riforma prevede innanzi tutto l’elezione diretta del Presidente del Consiglio da parte dei cittadini contestualmente al voto per il rinnovo del Parlamento. Una sua eventuale sostituzione sarebbe possibile una sola volta da parte di un altro parlamentare della maggioranza al fine di portare avanti l’attuazione del programma presentato in campagna elettorale, il che andrebbe a escludere che vi possano essere figure “tecniche” alla guida di un Governo. Altri tasselli che completano l’intervento di modifica sono l’introduzione di un premio di maggioranza del 55% per le liste e i candidati che sostengono il Presidente eletto, al fine di assicurargli una solida maggioranza parlamentare, e l’abolizione dei senatori a vita nominati dal Presidente della Repubblica.

Nelle dichiarazioni della compagine governativa, questa riforma si ispira al «criterio “minimale” di modifica della Costituzione vigente, in modo da operare in continuità con la tradizione costituzionale e parlamentare italiana», ma l’esito che si prospetta è di ben altro tenore per quanto è stato espressamente disciplinato e per quanto non è stato invece inserito. Ci riferiamo in particolare alla ridefinizione in senso limitativo del ruolo di garante e arbitro svolto dal Presidente della Repubblica dovuto alle modalità di elezione del Presidente del Consiglio, che verrebbe così paradossalmente investito di un capitale politico enorme, senza che siano riformulati i poteri che può esercitare e le responsabilità a cui è chiamato. Anche il Parlamento è chiamato in causa. In un suo intervento, il giurista e costituente Piero Calamandrei ricordava che «il regime parlamentare non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza». Il forte legame che la riforma introduce tra il Presidente del Consiglio e la maggioranza che lo sostiene in Parlamento non si accompagna a un necessario riconoscimento dei diritti e doveri delle minoranze, a uno statuto delle opposizioni simile a quello previsto in altri Stati con un impianto costituzionale maggioritario. Con queste scelte assistiamo alla concentrazione del rilievo politico nella figura di un leader, con il concreto rischio di pregiudicare il fondamentale sistema di pesi e contrappesi previsto in Costituzione, cruciale presidio della nostra democrazia, che si sostanzia in particolare nella divisione dei poteri, nel rapporto dialettico effettivo maggioranza-minoranza e nella presenza di organi terzi, come la Presidenza della Repubblica o l’ordinamento giudiziario.

Un ineluttabile destino marginale per il Parlamento?

Questa rapida rassegna non intende alimentare l’indifferenza di quanti guardano con fastidio alle nostre istituzioni e alla politica o indurre un senso di frustrazione e rassegnazione in quanti al contrario sono convinti della loro necessità. Piuttosto siamo convinti che solo prendendo atto con onestà della realtà nella quale ci troviamo è possibile chiederci se abbiamo ancora bisogno del Parlamento come istituzione e se abbia dunque senso restituirgli vitalità e centralità. Vi è un riferimento fondamentale a cui guardare e da cui partire per provare a dare una risposta: la funzione propria del Parlamento è di essere il luogo delle mediazioni, in cui le diverse componenti della società, portatrici di visioni distinte, si ritrovano per confrontarsi e poi decidere quali passi compiere per realizzare il bene comune. Questa dimensione della mediazione è un valore centrale, di cui riconosciamo di non poter fare a meno, eppure negli ultimi decenni è stata messa in discussione da quella logica di disintermediazione che si sperimenta in diversi ambiti, incluso quello politico, dove si traduce nell’inseguimento illusorio della democrazia diretta come panacea di tutti i mali. Nella prospettiva del premierato, che enfatizza la relazione diretta tra eletto ed elettori, quali luoghi e spazi resterebbero per la mediazione? In quale sede istituzionale potrebbe trovare composizione la conflittualità a livello sociale? Non certo in Parlamento, come d’altronde attesta l’esperienza di Paesi vicini come la Francia. Individuare questi nuovi spazi di mediazione è dunque un cantiere aperto e impegnativo, perché le soluzioni finora applicate nei sistemi maggioritari stanno rivelando la propria insufficienza.

 

Di fronte a una sfida aperta e incerta, l’alternativa che si può prospettare e che ci sembra più sensata è quella di rivitalizzare il luogo di mediazione per eccellenza, proprio quel Parlamento che sembra inesorabilmente svuotarsi. Nel discorso pronunciato in occasione del secondo giuramento come Presidente della Repubblica, il 3 febbraio 2022, Sergio Mattarella richiamava il «bisogno di costante inveramento della democrazia». Questo compito non si può realizzare riproponendo con nostalgia il passato senza vagliarne la sensatezza e la bontà nel contesto presente, avendo come riferimento imprescindibile la ricerca del bene comune. Per questo è certamente opportuno ripensare alcuni elementi istituzionali, ad esempio quello del bicameralismo perfetto, che non assolvono più alla funzione per cui erano stati pensati. Tuttavia l’attualizzazione delle forme della democrazia richiede di confrontarsi con le sfide di questo tempo tanto sul piano politico e istituzionale (le polarizzazioni e la sfiducia, gli equilibri da definire nei rapporti tra lo Stato e le Regioni da un lato e l’Unione Europea dall’altro), quanto su quello sociale e culturale (in primis i cambiamenti in atto a livello tecnologico, l’inverno demografico, le crescenti diseguaglianze e le tensioni che ne scaturiscono).

L’ampiezza e la complessità di questo compito ci fanno percepire quanto sia necessario un luogo in cui sia davvero possibile vivere il delicato e vitale esercizio della parola e dell’ascolto – come è implicito nell’etimologia stessa della parola Parlamento, che richiama l’atto del prendere la parola – in vista di una decisione che non sia frutto dell’imporsi della voce di chi si trova in una posizione di maggiore forza. Ponendosi in questa prospettiva, si coglie quanto il Parlamento sia ancora rilevante e che non è necessariamente destinato a essere ridotto a certificare la vittoria elettorale di una parte e a ratificare di volta in volta le decisioni prese in altre sedi. La preoccupazione principale che riguarda sia i singoli che le istituzioni dovrebbe allora essere quella di individuare e introdurre le condizioni che sul piano istituzionale e delle dinamiche sociopolitiche permettano al Parlamento di tornare a essere in modo nuovo il luogo del confronto e della progettazione del futuro del Paese.

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