di Aldo Bonomi | Mercoledì 18 maggio
IlSole24Ore
La pandemia ha duramente colpito il lavoro creativo e
culturale. Non vorrei turbare euforia e speranze date da quel «in
presenza» che ha riaperto fiere, in primis il Salone del Mobile,
eventi, festival letterari e di impresa, spettacoli… con freddi numeri.
Nel mondo si sono persi 10 milioni di posti di lavoro, in Italia il
rapporto Bes 2021 ci dice che in 2 anni si sono persi 55mila posti di
lavoro.
La pandemia ha però aggravato, non creato, una fragilità del
lavoro creativo e culturale che il precedente ciclo di crescita aveva
solo celato dentro l’espansione del mercato e dei consumi. Soprattutto
poco sappiamo di come la crisi si sia scaricata fuori dalle mura
dell’impresa culturale, lungo le filiere di servizio popolate dalle
tante partite Iva indebolite dalla mancanza di tutele. Il lavoro della
cultura più che una crisi sta vivendo una metamorfosi di lungo periodo.
Perché è lo stesso statuto sociale e identitario del lavoro culturale,
che mi pare pressato da trasformazioni, rispetto alle quali la pandemia
ha fatto da acceleratore.
Chiediamoci che impatto avranno le fratture
della globalizzazione sulla “via italiana” alle industrie creative e
culturali, molto spinta sul posizionamento del Paese come atelier globale
del gusto e del turismo culturale. Interroghiamoci sul ruolo dei saperi
astratti, delle tecnologie e della tecno-scienza nel campo delle
professioni creative. Il lavoro della creatività è sempre stato
intreccio tra cultura come sapere antropologico radicato e l’astrazione
dell’industria culturale. Negli anni della globalizzazione espansiva e
dei consumi postmaterialisti il lavoro culturale è stato parte del
grande alveo della terziarizzazione, con l’idea di classe creativa
(Florida) a suggerire un ingresso generalizzato dei soggetti con alti
investimenti educativi in una nuova middle class urbana. Scenario
solo in piccola parte realizzatosi, visto lo sfarinamento e la
polarizzazione delle condizioni di lavoro proprio nelle piattaforme
urbane.
Potremmo dire che il lavoratore culturale o “creativo” è stata
una figura di passaggio tra il vecchio intellettuale, sbriciolato
dall’industria culturale e l’odierna figura emergente del neo-tecnico
prodotto dalla società del calcolo e del dato. Quelli che lavorano
comunicando sono in mezzo a questa metamorfosi. Nel mio ultimo libro Oltre le mura dell’impresa
ho chiamato questa sfida iperindustrializzazione. Creatività e cultura
vengono incorporati negli algoritmi dentro l’economia delle grandi
piattaforme di consumo culturale sospinte dalla pandemia. Che ci ha
anche insegnato a stressare la nostra creatività per comunicare e
vendere nella distanza sociale allargando in basso, il campo dei
cosiddetti pubblici produttivi in un prosumerismo culturale che ha eroso
gli argini della creatività professionistica. Una possibile risposta a
questa doppia pressione, dall’alto e dal basso, può stare sul fronte
delle competenze, ma soprattutto dobbiamo ragionare sul ruolo sociale
del lavoro culturale.
Ad esempio, nel rapporto del lavoro creativo con
il made in Italy, del design, l’affermarsi della potenza di
calcolo delle piattaforme non implica il venir meno della funzione di
rappresentazione delle merci che la creatività ha esercitato, ma esige
una transizione dei saperi e delle filiere culturali. La
smaterializzazione dell’impresa manifatturiera innesca una domanda di
nuovi ruoli professionali. Per raccontare oggi la distintività di un
prodotto, occorrono nuovi saperi legati a funzionalità e sostenibilità
delle merci, non solo a un racconto estetico o artistico. Da qui
politiche industriali che stimolano l’acquisto da parte delle imprese di
queste nuove competenze creative o l’innesto negli organigrammi
aziendali.
Ma le professioni della creatività non sono soltanto “servizi” incorporati nella valorizzazione della merce. Il lavoro culturale istituisce la società, coopera a costituire simboli, valori, opera nella sfera dei fini di una società, non soltanto dei suoi mezzi tecnici. Da qui l’empatia tra istituzioni culturali e spazio pubblico che interroga quelle esistenti, e di uno statuto del lavoro culturale le cui fragilità non sono solo di mercato, ma riguardano lo sfarinamento del ruolo di tessitore sociale del professionismo culturale. La questione delle competenze riguarda anche il tema della comunità e del legame sociale, del posizionamento del lavoro culturale come produttore di società. La cultura è umanesimo. O le professioni della cultura riprendono identità da tessitori di un intelletto sociale collettivo in grado di temperare o umanizzare le accelerazioni della tecno-scienza globale, oppure non possono che diventare una componente subalterna di un general intellect che ormai produce valore mobilitando desideri, gusti delle persone senza la mediazione critica del lavoro culturale.
Occorre mettersi in mezzo alla riorganizzazione delle città. Che non è solo questione di urbanisti. La loro rigenerazione sociale e ambientale dipenderà dal tessere e ritessere intreccio tra lavoro culturale e lavoro di cura.