L'EBREO IN POLTRONA E LA GUERRA IN CASA
di Gad Lerner | @IlFattoQuotidiano
Profittiamo di questa tregua momentanea in una guerra che è locale, sì, ma talmente densa di implicazioni da sospingerla fino a noi, dando forma al prisma su cui si rifrangono le opposte visioni e gli opposti interessi del mondo contemporaneo. Fermiamoci un attimo. Confrontandoci con l’inaudito, abbiamo spesso cercato rifugio nelle comparazioni storiche, nelle terminologie ereditate dai conflitti del passato, perfino nei richiami biblici o coranici buttati lì a sproposito. Sono scorciatoie che ci concediamo nello sforzo di capire cosa diavolo stia precipitandoci addosso. Confesso, per esempio, che dopo la strage degli innocenti perpetrata da Hamas il 7 ottobre – udito Erdogan che nobilitava quei sicari col nome di “partigiani” – mi è venuto semmai da pensare all’eccidio di Marzabotto: nessuna brigata partigiana mai si sarebbe accanita in quel modo su donne, vecchi e bambini. Il nostro immaginario resta plasmato sugli orrori del razzismo novecentesco piuttosto che sulle guerre di religione medioevali. Ma non funziona più, se non per sparute minoranze. Neanche la memoria della Shoah, malamente strumentalizzata, riesce a erigere un tabù di fronte alla ferocia dilagante. Anzi, come ha detto lo storico Enzo Traverso, “se non si ferma questa guerra nessuno potrà più parlare di Olocausto senza suscitare diffidenza e incredulità; molti finiranno per credere che l’Olocausto è un mito inventato per difendere gli interessi di Israele e dell’Occidente”. Lo si è percepito il 31 ottobre scorso, quando Gilad Ergan, ambasciatore di Israele all’Onu, si è presentato al Palazzo di Vetro esibendo una stella gialla appuntata sul bavero per denunciare la sottovalutazione del massacro di civili ebrei. “Come per la salita al potere del nazismo, il mondo tace”, dichiarò.
Quel gesto fu subito definito oltraggioso da Dani Dayan, direttore di Yad Vashem, il sacrario eretto per custodirne la memoria a Gerusalemme. Ma a rendere inappropriata l’evocazione della stella gialla era soprattutto l’azione militare israeliana scatenata a Gaza, col blocco dei rifornimenti alimentari, idrici ed energetici, con lo spaventoso, inaccettabile numero di vittime civili liquidate alla stregua di effetto collaterale. Sul fronte opposto, in alcuni cortei filopalestinesi è comparso un fotomontaggio di Anna Frank con la kefiah: rovesciamento simbolico buono solo per le piazze occidentali dove circola lo stereotipo delle vittime che diventano carnefici, tanto che “i veri ebrei oggi sono i palestinesi”. Non mi addentrerò oltre in questo ginepraio di ritorsioni semantiche e di identificazioni forzate nell’una o nell’altra delle parti in conflitto. Storia vecchia, peraltro. Ero ragazzo quando partecipavo a manifestazioni del movimento studentesco in cui si gridava “Al Fatah vincerà” e provavo disagio perché trovavo giusta la causa palestinese ma non certo la distruzione di Israele che all’epoca pure Arafat propugnava. In tanti ci siamo adoperati per il dialogo e la reciproca accettazione, creando occasioni di incontro, viaggiando tra le due sponde, sopportando accuse di tradimento della nostra appartenenza. In tanti ci crediamo ancora oggi, pur angosciati dal precipitare catastrofico in un’incomprensione che pare senza rimedio. Fa impressione constatare che i rappresentanti delle istituzioni ebraiche siano giunti ormai a percepire come avversari anche il Segretario generale dell’Onu e il Papa. Essi vivono con fastidio perfino i richiami alla moderazione del presidente americano. Davvero pensano che la sicurezza d’Israele possa reggersi solo sulla propria forza militare e sull’appoggio (temporaneo, strumentale) delle destre più oltranziste all’estero? L’imperativo categorico che si sono autoimposti – mai criticare l’operato del governo israeliano in carica – li ha condotti a una tragica sottovalutazione dei fattori che hanno favorito l’offensiva di Hamas; e ha incrinato la reputazione di Israele, che di recente ha trovato sponde solo nei regimi arabi semifeudali. Scaturisce da questa sottovalutazione l’imbarazzata reticenza con cui si è tollerata l’offensiva del sionismo religioso nei luoghi santi di Gerusalemme; e in particolare sulla Spianata delle Moschee dove sono state calpestate le limitazioni al culto ebraico stipulate d’intesa con le autorità islamiche. Hamas ne ha fatto il cuore della sua martellante propaganda, lanciando accuse di profanazione di Al Aqsa e chiamando tutti i musulmani alla guerra santa.
È l’epicentro in cui trovano alimento il fanatismo speculare dell’islam apocalittico e del messianismo ebraico, fondati entrambi sul preteso, in realtà blasfemo, diritto divino alla proprietà materiale di una terra consacrata, da cui scacciare gli infedeli. La deformazione forzata delle religioni monoteiste è il frutto avvelenato di una contesa nazionale che le componenti laiche hanno lasciato marcire. Il legame ancestrale con la Terra Promessa viene addotto dai coloni a considerare sacrilego il ritiro dai territori palestinesi occupati, tanto da profetizzare l’imminente restaurazione dell’antico Regno d’Israele in ogni luogo citato dalla Bibbia. Gaza compresa. Sebbene fosse proprio a Gaza, per ironia della sorte, che ebbe origine nel 1665 la più nota e diffusa eresia ebraica: la proclamazione di un falso Messia (poi convertitosi all’islam) nella persona di Sabbatay Zevi. Se oggi prospera un nuovo messianismo eretico, lo si deve alle sordide convenienze della destra israeliana. I laici fondatori dello Stato d’Israele non erano idolatri di tal fatta, avevano accettato la spartizione della Terra Promessa stabilita dalla Società delle Nazioni. Anche se poi, di fronte al rifiuto arabo, nulla fecero per favorire l’autodeterminazione di una nazione palestinese. La stessa Hamas, che in ciò si differenzia dal jihadismo globale di al Qaeda e dell’Isis, replica questo impasto fra nazionalismo e integralismo religioso. La società palestinese e la società israeliana sono entrambe lacerate dalla crescita al loro interno dei nemici della laicità e della democrazia, tali da spezzettarle in compartimenti stagni che neanche un conflitto all’ultimo sangue sarà in grado di ricompattare. È questo il dramma della guerra che stiamo vivendo: la sottomissione delle questioni sociali e nazionali alla supremazia del fanatismo identitario mascherato da fede religiosa. Richiamati, come siamo, ciascuno alla propria atavica appartenenza, vorrebbero costringerci a provare indifferenza per la sorte dell’altro, trasformato in nemico. Non si creda che ciò valga solo in Medio Oriente: tale barbara antinomia è contagiosa, già lambisce anche l’Europa. Ci strattona, ci ricatta. Mi è capitato nei giorni scorsi di ricevere una mail da Israele, inviata da persona autorevole che stimo, nella quale definisce “gigioni e vergognosamente parziali” i miei interventi sulla guerra in corso.
Mi ha ferito, anche se posso intuire la disperazione di chi l’ha scritta. Si parva licet, mi ha fatto tornare alla mente un’intervista che feci a Primo Levi nel 1982. La volle leggere e rileggere, esitante, prima di consegnare le sue critiche all’invasione israeliana del Libano. E aggiunse, cito a memoria: “Già immagino i messaggi di rimprovero che mi giungeranno da laggiù… troppo comodo dire la tua così, ebreo seduto in poltrona”. Ma è solo dallo spirito critico che può rigermogliare la speranza.