Altruismo ben temperato e razionalità del “noi”

di Vittorio Pelligra | Lunedì 28 marzo

 

 

 

 

 

 

 

 

IlSole24Ore

 

 

 

 

 

 

 

 

Nelle sue Tanner Lectures tenute all'Università di Stanford nell'inverno del 2008 lo psicologo Michael Tomasello enuncia e difende un'ipotesi a cui attribuisce il nome di “Ipotesi Spelke prima, Dweck poi” dal nome di due psicologhe, Elizabeth Spelke di Harvard e Carol Dweck della Stanford University. La prima parte dell'ipotesi – quella Spelke – fa riferimento all'innata spontaneità dei comportamenti altruistici che osserviamo nei bambini anche piccolissimi. Comportamenti che principalmente assumono la forma del prestare aiuto a chi ne ha bisogno, del fornire informazioni e del condividere risorse in comune.

 

“I bambini si dimostrano collaborativi e propensi all'aiuto in molte situazioni, anche se non in tutte, ovviamente. E non si tratta di un comportamento appreso dagli adulti, ma qualcosa di assolutamente spontaneo” scrive Tomasello. Nel corso dell'ontogenesi, però, - continua - la tendenza alla cooperazione piuttosto indiscriminata dei bambini viene mediata da fattori come il giudizio sull'eventuale reciprocità e la preoccupazione per come si verrà giudicati dagli altri membri del gruppo fondamentali nell'evoluzione della cooperazione naturale tra esseri umani.

 

A questo punto i piccoli iniziano a interiorizzare molte norme sociali specifiche della loro cultura che prescrivono come vanno fatte le cose, come un individuo le dovrebbe fare se vuole appartenere al gruppo. E questa è la seconda parte dell'ipotesi, quella “Dweck”). Dell'evidenza a sostengo della prima parte dell'ipotesi abbiamo ampiamente discusso nel Mind the Economy della settimana scorsa. Qui ci occuperemo, invece, della seconda parte dell'ipotesi, dell'effetto di mediazione, cioè, che il processo di socializzazione opera nei confronti delle nostre innate tendenze altruistiche.

 

Tutti noi abbiamo fatto esperienze differenti durante il processo di sviluppo, siamo stati sottoposti ad influenze diverse, culturali, sociali, familiari e queste, naturalmente, hanno lasciato un segno distintivo su ciò che poi siamo diventati da adulti. Queste influenze possono essere distinte in due diverse tipologie. Innanzitutto abbiamo quelle che derivano dall'esperienza diretta che i bambini hanno dell'ambiente sociale nel quale operano. Tutti i feedback che ricevono dall'interazione con gli altri e che andranno a rinforzare certe propensioni e a scoraggiarne altre in virtù delle conseguenze che queste producono.

 

“I piccoli imparano che dimostrarsi cooperativi e pronti ad aiutare gli altri nella maggior parte delle situazioni porta a ricevere in cambio cooperazione e offerte d'aiuto; perciò, sono incoraggiati a imboccare questa strada” afferma Tomasello. Ad un certo punto, però, iniziano anche a sperimentare che l'altruismo incondizionato può anche indurre gli altri ad approfittarsene e questo porterà i bambini ad un cauto sospetto. Per questa ragione in una successiva fase dello sviluppo, intorno ai tre anni, i bambini imparano a diventare più selettivi, in particolare iniziano a tener conto delle caratteristiche delle persone con cui interagiscono. In questa fase inizia ad apparire una certa sensibilità al principio di reciprocità diretta e indiretta. I bambini, cioè, si dimostrano più propensi ad aiutare e a condividere se il destinatario si era dimostrato in precedenza gentile con loro o aveva prestato aiuto a qualcun altro.

 

 

 

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