Il consumismo e l'identità perduta

Il consumismo e l'identità perduta

di Daniele Rocchetti


Alla fine degli anni Ottanta mi è capitato di incontrare più volte don Enrico Chiavacci, uno dei più grandi teologi morali italiani del Novecento. Con mia moglie Renata e alcuni amici si saliva a trovarlo a San Silvestro a Ruffignano, alle pendici del monte Morello, a pochi chilometri da Firenze


Il nemico ci ha preso alle spalle


Don Enrico raccontava come la Chiesa italiana negli anni Sessanta fosse schierata con i fucili puntati, in modo compatto, di fronte al nemico comunista, ateo e materialista. In questa lotta spasmodica non ci si rese conto che il vero nemico – il consumo – sarebbe arrivato alle spalle e ci avrebbe conquistati ad uno ad uno. La modernità ha seduttivamente e progressivamente ridotto la persona ad individuo e l’individuo a consumatore. Come ha scritto lucidamente Luigino Bruni in un recente articolo per Avvenire:

Finché il capitalismo era rimasto una faccenda di lavoro e di imprenditori, e quindi qualcosa di nordico e di calvinista (e di faticoso), non è riuscito a penetrare in profondità nel mondo cattolico. Da noi e nel Sud il lavoro è sempre stato soprattutto fatica, travaglio, era poco convincente e poco attraente la visione del lavoro come vocazione (Beruf). Ma quando con la seconda metà del Novecento il centro del capitalismo si è progressivamente spostato dalla fabbrica al consumo, i paesi cattolici e latini sono stati totalmente conquistati e soggiogati. L’arcaica e mai tramontata “cultura della vergogna” dei paesi meridiani si è perfettamente sposata con l’umanesimo delle merci, con il consumo vistoso.


Con acuta lucidità l’aveva previsto, agli inizi degli anni Settanta, Pierpaolo Pasolini: il consumismo, molto più del fascismo e del comunismo, sarebbe entrato nell’anima della nostra gente, svuotandola di tutta l’eredità classica e cristiana. In una delle pagine più amare degli Scritti corsari, “la lettera aperta a Italo Calvino” del ‘74, Pier Paolo Pasolini si dispera per non essere stato compreso neppure da uno degli intellettuali a lui più cari. L’avvento dell’individualismo edonistico dell’orrendo consumismo non lo induceva, come crede Calvino, a rimpiangere l’Italietta, eterna provincia dello spirito, intrisa della cultura formale dell’umanesimo scolastico. Quel che Pasolini lamentava era la scomparsa delle comunità di uomini vissuti nell’età del pane, non dell’oro, consumatori di beni essenziali, in cui il risparmio era la dote paziente di chi si aspettava tempi peggiori: comunità rimaste intatte per millenni, che conducevano una vita precaria ma necessaria, mentre i beni superflui rendono superflua la vita. Non a caso, Pasolini definiva il nostro tempo come “politeista”. 


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